Filippo nel viaggio dello spirito da Firenze a Gaeta

 

 

GIUSEPPE PERRELLA

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XIX – 12 novembre 2022.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: BREVE DISCUSSIONE]

 

Ci sono cose che soltanto l’intelligenza può

cercare, ma che da sola non troverà mai.

[Henri Louis Bergson]

 

Ogni uomo è un attore e

tutto il mondo è palcoscenico.

[William Shakespeare]

 

Non c’è comico al di fuori di ciò

che è propriamente umano.

[Henri Louis Bergson]

 

 

1. Un luogo interiore in viaggio alla ricerca di compimento nell’altrove del mondo. Nella Grecia arcaica, prima della nascita dell’arte del recitare in sedi architettonicamente concepite per rappresentazioni rivolte a un pubblico di spettatori, la parola theatron voleva dire spazio della mente in cui si rappresenta un fatto dello spirito. Designava dunque una dimensione puramente psichica.

La consapevolezza che questa dimensione non esiste solo quale intimistico tempo di autocoscienza, ma costituisce la parte attuale e attiva del mondo interiore e può essere influenzata dalla realtà circostante, come può esprimersi attraverso il soggetto e influenzare chi lo circonda, non è di molti, ma lo era senz’altro di un giovane fiorentino di nome Filippo, che era entrato in rapporto con questa parte di sé fin da piccino. E da bambino aveva imparato quasi istintivamente, in modo che sentiva naturale, ad attrarre gli adulti provocandone il riso con motti divertenti e un agire burlesco, così da conquistarli al suo theatron interiore, che era fin da quel tempo, senza che lui stesso potesse avvedersene, popolato di realtà.

Oggi sappiamo che questa dimensione psichica più rimane attiva e più conferisce forza al soggetto, che la avverte come voglia di vivere e la esprime quale vitalità, espansività e intraprendenza; ma, per essere efficace secondo la specificità che le è propria, ha bisogno di essere nutrita – al di là del fabbisogno di ossigeno, glucosio, altri metaboliti ed oligoelementi proprio del cervello – con esperienze capaci di evocare e innescare nelle reti neuroniche encefaliche un particolare tipo di funzionamento che genera armonia e benessere. Le esperienze in grado di assolvere questo compito metaforicamente trofico si possono riportare a due grandi categorie: il vissuto del rapporto con gli ambienti naturali, la loro bellezza e la loro valenza biologica[1], e le condizioni evocative di affettività positiva nel contesto umano.

Senza mai accedere a questo sapere e per ben altre e più nobili ragioni del cercare il benessere personale, Filippo arriverà ad attingere ad entrambe queste fonti, nutrendo la sua dimensione psichica interiore, base e sostegno del suo spirito, per motivi e fatti che qui si prova a ricostruire.

Per la prima delle due, Filippo aveva una grande occasione: il padre lo inviava ad apprendere l’arte del commercio da un facoltoso zio, Bartolomeo Romolo, che viveva a San Germano di Montecassino ma aveva consuetudine con le bellezze naturali della vicina città di Gaeta. Celebrata per secoli come Repubblica marinara e Ducato che aveva reso grandi servigi con la sua marineria ai popoli cristiani d’Italia e d’Europa, Gaeta era ancor più descritta e narrata per l’incantevole vista che si dischiudeva agli occhi di chi, giungendo dal litorale circeo, inquadrava il golfo dall’alto, o per i panorami dal Monte Orlando, per gli scorci di cielo e mare, cobalto e smeraldo, chiusi tra le due pareti della Montagna Spaccata, fatte di rocce sporte verso il sole, che le rende eburnee dove incide diretto e le accarezza nei toni smorzati dell’ombra luminosa di riflessi alabastrini, costellata di nidi, raggiunti da uccelli marini con voli intrecciati in allegre sinfonie di canti e richiami.

Filippo non aveva alcuna intenzione di diventare commerciante ma era entusiasta di mettersi in viaggio per andare a conoscere quel luogo di bellezza, quasi certo per ispirazione di potervi trovare risposte alle sue domande e richieste interiori. Non lo immaginava come una meta, una terra dove godere la vita per un tempo o per sempre, ma come un passaggio di senso dall’emozione aperta e sospesa della speranza al sentimento compiuto e assoluto della fede.

 

2. Come Gaeta origina e entra nella storia romana rimanendo luogo naturale. Sulla base di una deduzione puramente linguistica, la scoperta delle bellezze della vasta insenatura che va dal Lazio alla Campania si può attribuire a navigatori spartani, in quanto il termine καϊέτα (caieta) che indicava ogni concavità e si riconosceva nel comune pronunciare “kaieta” o “kaiata[2] il nome del golfo che va dal Monte Circeo al Capo Miseno[3], è parola dell’idioma greco dei Laconi, ossia della popolazione dell’antica regione greca della Laconia, che aveva per capoluogo la città di Sparta. Ma da Strabone, lo storico geografo greco autore della monumentale opera Geografia, apprendiamo anche la più nota origine della denominazione della città di Gaeta dal nome della nutrice di Enea; versione non incompatibile con l’origine laconica del nome del Golfo[4]. Virgilio, coevo di Strabone, conosce l’antico racconto dell’anziana nutrice di Enea di nome Caieta, che muore durante il viaggio lungo la costa laziale e viene sepolta dall’eroe troiano nel luogo che avrà il suo nome in suo ricordo, e considera autentica tale narrazione, tanto da includerla nell’Eneide (VII, 1-4).

Dante Alighieri era certo della storicità del racconto di Virgilio sull’origine del nome di Gaeta e ne fa menzione nel XXVI canto dell’inferno, per bocca di Ulisse[5].

Alcuni citano l’etimologia toponomastica di Diodoro Siculo che, collegando il litorale del basso Lazio al mito degli Argonauti, propone l’origine del nome Gaeta da Aietes, padre di Medea, la sposa di Giasone, ossia del capo della spedizione per la conquista del vello d’oro. Ma Diodoro non cita alcun nesso, ragione o tradizione a supporto di questo etimo e, inoltre, riferendo il mito, commette errori nell’indicare le parentele dei protagonisti[6].

I primi insediamenti nell’area di Gaeta si fanno risalire al X secolo a.C., anche se mancano studi archeologici approfonditi sulle epoche preistoriche, e le prime testimonianze scritte non sono antecedenti allo stanziamento dal fiume Liri all’area del Vulcano di Roccamonfina da parte degli Aurunci. Era questo un popolo definito da Dionigi di Alicarnasso bellicoso e temibile per l’alta statura e la forza fisica che, di fatto, consentì loro nella battaglia di Aricia[7] di resistere ai Romani per una giornata intera, capitolando solo verso sera: era l’anno 495 a.C.[8]. Non sappiamo quanto degli Aurunci abbia costituito radice etnica delle genti gaetane, ma è lecito supporre poco, perché lasciarono disabitate e coperte di ricca e fiorita vegetazione le aree del promontorio e deserta anche tutta la costa lungo la serie di spiagge che segue Fontania.

Nonostante la vittoria sugli Aurunci, si legge, Roma estese la sua influenza su Gaeta solo un secolo e mezzo dopo, a partire dal 345 a.C.[9]

Col passare degli anni, mentre le spiagge gaetane rimanevano isolate e incontaminate, l’area portuale, sotto la spinta di una marineria che vantava esperti nocchieri e navigatori provenienti da famiglie di antichissima tradizione greca, si sviluppava enormemente per traffici mercantili e viaggi, così che lo stesso Cicerone nel 66 a.C. scrive: “Portum Caietae celeberrimum ac plenissimum navium[10].

Un oratore discepolo di Cicerone, Lucio Munazio Planco, che seguì la carriera politica e militare divenendo console della Repubblica romana, triumviro, censore, prefetto dell’Urbe[11] e generale di Cesare, fece costruire a Gaeta, che considerava il più bel sito naturale a conoscenza d’uomo, la sua villa[12] e un grande mausoleo per la sua sepoltura sulla cima del monte Orlando[13]. Lucio Munazio Planco, che era stato accanto a Cesare anche nello storico attraversamento del Rubicone, ottenne due volte l’imperium, fu governatore della Gallia e della Siria, fu al fianco di Marco Antonio, suo amico di lunga data, e, infine, fu con Ottaviano quando ritenne che Antonio, per amore di Cleopatra, avesse tradito la loro amicizia e la fedeltà a Roma[14]. Fu Lucio Munazio Planco, secondo Svetonio, a proporre il titolo di Augustus per Ottaviano, che divenne così Gaius Octavius Thurinus Iulius Caesar Augustus[15].

Non fu difficile per Planco trasmettere ad Augusto, già innamorato di Capri ma sempre affascinato dalla bellezza naturale, il suo amore per Gaeta, che diventerà presto meta di villeggiatura imperiale, di patrizi romani, consoli, senatori e aristocratici di ogni provenienza.

Coloro che non conoscevano Gaeta si lasciavano convincere a visitarla dalle descrizioni entusiastiche dell’ex-governatore di Gallia e Siria, perché sapevano che aveva girato il mondo a quel tempo conosciuto più di qualsiasi altro generale, console o governatore, e certamente di città se ne intendeva. Infatti, anni prima, quando su consiglio di Cicerone il Senato Romano lo inviò in Gallia, prima che ne diventasse il governatore vi fondò due nuove città, seguendo personali criteri estetici oltre che urbanistici: Lungdunum, l’odierna Lione, e Augusta Raurica, oggi Augst presso Basilea, in territorio svizzero.

Planco, come era accaduto ad Augusto e poi a Tiberio per l’isola di Capri, aveva trovato in Gaeta un luogo dove liberare la mente dalle ansie, dalle responsabilità, dagli obblighi e dalle frustrazioni della vita politica e sociale dell’Urbe, uno spazio in cui fare espandere lo spirito nella bellezza salutare di una realtà naturale altra dai palazzi romani gremiti di pretoriani in armi, e forte di una verità primordiale e rigenerante. Filippo, invece, era in cerca di un luogo che conferisse un topos alla sua dimensione interiore, che lo aiutasse a compiere il senso di sé stesso e della propria vita.

 

3. Chi era il giovane Filippo e in quale realtà culturale era nato il suo theatron interiore. Nella Chiesa parrocchiale di San Pier Gattolino in Firenze, vicina alla sua casa e poco distante dalla Porta Romana, fu depositato solo un giorno dopo la sua nascita l’atto del battesimo avvenuto il 22 di luglio del 1515 nel Battistero di San Giovanni, dove il padre, ser Francesco Neri di Filippo da Castelfranco Valdarno, e la madre, monna Lucrezia da Mosciano, gli imposero il nome del nonno paterno e lo dichiararono Filippo Romolo Neri[16].

In quell’anno le due grandi anime del Rinascimento fiorentino erano a Roma: Michelangelo ultimava il Mosè cominciato due anni prima e Leonardo, per alcune commissioni ricevute dal Papa, dimorava nel Palazzo Apostolico[17], dove peraltro era attivo anche Raffaello. Sempre nel 1515, si pubblica in Firenze il volume Motti e facezie del Piovano Arlotto; frate Teodoro, un seguace dei penitenti di Savonarola sorpreso a compiere frodi, è condotto a processo; Lorenzo, figlio di Piero de’ Medici e nipote del Magnifico, è nominato Capitano della Repubblica Fiorentina; Giovanni de’ Medici, divenuto Papa col nome di Leone X, entra solennemente nella sua Firenze. L’ingresso del Papa Medici in città è celebrato con una cerimonia storica, che vede un corteo e un seguito di popolo così eccezionalmente numeroso da richiedere, per farlo passare, la demolizione dell’antiporto della Porta di San Pier Gattolino, oggi Porta Romana, proprio nel luogo in cui nasce Filippo e a pochi passi dalla sua chiesa parrocchiale. Ancora nel 1515 fu indetto il concorso per la realizzazione della facciata di San Lorenzo, che vide vincitore Michelangelo Buonarroti sul rivale Giuliano da Sangallo.

Originari della Valle Soprarno, i Neri erano una famiglia di notai che aveva acquisito buona fama e considerazione istituzionale già nel secolo precedente, ma che in quegli anni aveva incontrato delle difficoltà economiche, secondo alcuni dovute in parte alla loro fede repubblicana e savonaroliana in un’epoca di restaurazione signorile medicea[18]. Il padre di Filippo, Francesco Neri, un appassionato di studi alchemici e di esperimenti alchimistici, per esigenze economiche è costretto ad esercitare la professione familiare di notaio, che a quel tempo richiedeva più garanzia di affidabilità istituzionale che profondità di dottrina giuridica. La madre, Lucrezia da Mosciano, figlia di un falegname, era donna pia e amorevole, ma muore di parto quando Filippo ha solo cinque anni[19].

Da piccolo, come apprendiamo dalle parole della sorella Elisabetta, mostrò un temperamento mite e gioviale, ed era volenteroso, disciplinato e “burlevole”, ossia spiritoso, distinguendosi per essere obbedientissimo e sempre disponibile alle richieste del padre: “Mai fece cosa per la quale lo gridasse”[20]. Il soprannome familiare di “Pippo Buono” si diffuse fra tutti i conoscenti e si legge anche come titolo di un ritratto a stampa del bambino riprodotto in un ovale. Il piccolo Filippo, per disciplinata pulizia e cura di sé, poteva apparire perfino vanitoso, come si legge: “…aveva una mantella molto pulita… era di bellissime fattezze, i suoi capelli erano lunghi e portava una catenina d’oro sopra l’abito”[21].

Francesco Neri, rimasto vedovo, lascia San Pier Gattolino e si trasferisce con la famiglia presso la parte di Firenze detta del “Popolo di San Marco”, dove da giovane aveva ascoltato le appassionate prediche di quel novello Giovanni Battista censore dei costumi corrotti dei potenti che rispondeva al nome di Girolamo Savonarola; il piccolo Filippo viene aggregato alla Compagnia dei fanciulli della Purificazione presso il Convento di San Marco, sotto la rigida regola savonaroliana.

Questa formazione, anche se frequenterà le scuole pubbliche e ricorderà sempre il suo precettore Chimenti, gli lascia dentro un’impronta indelebile, sia per l’abitudine alle quotidiane orazioni nelle ore del giorno dedicate, sia per la pratica caritatevole di trasmettere i principi della fede e il senso pratico della dottrina alle persone che incontrava e che spesso vivevano un ateismo de facto. Eppure, Filippo non sceglie di prendere i voti e decide di non vivere in convento come novizio domenicano. Era affascinato dalla vita di quei frati che, invece di rimanere nel monastero, figura e sostituto del deserto di profeti e penitenti ebraici, trascorrevano il giorno intero per le vie a predicare, insegnare e aiutare materialmente il prossimo in difficoltà.

Filippo amava la vita. Non come si intende oggi: amava il sorgere, lo splendere e il tramontare del sole sulle bellezze di natura e su quelle dell’arte, amava stare tra la gente in armonia e in allegria. Era convinto che il miglior modo di amare il prossimo fosse indurlo a fare e ricercare il bene, e così trovare la gioia. Quella gioia che, nel Vangelo di Giovanni a lui tanto caro, Gesù dice di volere che sia piena nei suoi discepoli e, per questo, dà loro un comandamento nuovo: “Che vi amiate gli uni gli altri come io vi ho amati”[22]. E Filippo sa che il preferire la gioia al piacere è segno distintivo del cristiano.

Filippo aveva vissuto pienamente, quasi come una contraddizione interiore da risolvere, il quotidiano contrasto nelle strade della Firenze repubblicana tra il predicare apocalittico e penitenziale dei piagnoni, ossia dei seguaci di quel Savonarola che lui venerava e suo padre aveva tanto ammirato, e la gioiosa voglia di vita che esprimevano i cantori, i musici, i giocolieri e i giullari interpreti ancora dello spirito di Lorenzo il Magnifico che, con il suo “Quant’è bella giovinezza che si fugge tuttavia! Chi vuol esser lieto sia[23], aveva lasciato un’eco che sembrava sussurrare “sii felice” al suo orecchio adolescente, e con la corte di suoi amici quali Leonardo da Vinci, Sandro Botticelli, Pico della Mirandola, Agnolo Poliziano e Marsilio Ficino[24] aveva fondato e lasciato davanti ai suoi occhi l’eredità di un ideale neoplatonico realizzato come cristiana felicità di questa vita, che sostituiva la penitenza con la gioia dell’operoso impegno creativo e del godere di ogni bellezza nella condivisione dell’amore.

Di quei giorni lo storico Franco Cardini scrive: “Era anche una Firenze allegra e giocosa. I Medici avevano incoraggiato le feste come quelle di carnevale o di calendimaggio non meno che le grandi solennità pubbliche come quella di San Giovanni di fine giugno, che era il momento in cui la dominante pretendeva dalle comunità soggette un contributo simbolico in ceri e palii al patrono della città in segno di soggezione fedele. Lorenzo, poi, aveva fatto dei «trionfi», delle giostre e dei tornei delle vere e proprie epifanie principesche”[25]. Quarant’anni dopo l’inizio, queste tradizioni sono parte consolidata del costume della città e rappresentano circostanze di divertimento collettivo vissute con partecipazione, passione ed entusiasmo dalle giovani generazioni, che ne fanno altrettante occasioni per mettere in mostra i propri talenti artistici o artigianali, per trovare un mecenate, per fare nuove conoscenze, per mostrare la propria bellezza, per cercare l’amore, per allontanarsi dal dolore e dalla povertà o coltivare i propri sogni condividendoli con altri.

Pippo Buono aveva difficoltà a considerare tutto questo un’opera del maligno e, pur rendendosi conto che il male spesso si aggirava tra i festanti col volto di borseggiatori, prostitute, truffatori, ubriaconi e sicari, riteneva che il popolo accorso per un sano desiderio di partecipazione e divertimento non fosse da demonizzare. E tendeva sempre a distinguere i peccati dai peccatori, condannando i primi e assolvendo i secondi.

 

4. Gaeta: un mondo a parte o una parte di mondo quale dimensione dello spirito? Non possiamo sapere e neppure immaginare quanto di quel passaggio di senso dall’emozione aperta e sospesa della speranza a un sentimento compiuto e assoluto, che lega identità e senso della vita, fosse già prefigurato nella mente di Filippo. Stando a quanto si legge nelle biografie più autorevoli, ancora poco a quell’età, se a Roma, dopo i due anni trascorsi tra San Germano e Gaeta[26], sarà ancora per molto tempo errante, senza una fissa dimora e un ruolo sociale[27].

Filippo si chiede anche come e perché San Francesco d’Assisi si fosse recato proprio a Gaeta, così lontana dalle sue frequentazioni più note e abituali, e vi avesse fatto costruire nel 1222 un convento che guarda dall’alto il mare del porto medievale dove – gli hanno detto – si lavora ancora dal 1283 alla fabbrica di una cattedrale a lui dedicata. Se c’è un motivo spirituale, al di là delle contingenze storiche, si ripromette di scoprirlo.

Intanto, è giunto tra le case di un abitato vicino al mare, dove vede alcuni uomini e donne presso ceste di frutta e ortaggi, come in un mercatino improvvisato, e domanda loro se manca molto alla città vera e propria. Sentendosi rispondere che è già a Gaeta, chiede della città vicina al mare. Tutti ridono o sorridono, allora il più anziano dei presenti gli spiega che sono su una lingua di terra protesa nel mare che, da lì in avanti, la circonda quasi e, dunque, sta a lui decidere verso “quale mare” andare. Infatti, da un lato vi è il mare del porto, oggi turistico e che prosegue con il lungomare fino a Gaeta Medievale, dall’altra il mare della lunga spiaggia di Serapo racchiusa tra il promontorio del Monte Orlando con la Montagna Spaccata e il Promontorio di Fontania, oltre il quale vi sono le spiagge di Sant’Agostino, San Vito, Arenauta, Ariana e Quaranta remi.

Filippo è ancora più incuriosito e attratto dall’idea di esplorare, ma prevale in lui il desiderio di chiedere subito del soggiorno di San Francesco, e si sente rispondere quasi in coro che furono i cittadini di Gaeta, secondo la tradizione, a chiedergli di rimanere e fondare una comunità religiosa nella loro città; richiesta alla quale il santo rispose con devoto impegno, promuovendo l’edificazione, oltre che di una dimora per i confratelli, di una chiesa da dedicare alla Vergine Maria Assunta in Cielo. Filippo allora racconta come, sempre per volontà del poverello di Assisi, fosse nato il tempio francescano di Santa Croce in Firenze; udito ciò, gli dicono che la chiesetta voluta dal santo per la Vergine è oggi la Cattedrale di San Francesco in Gaeta[28].

Una donna seduta presso le ceste di frutta, visto l’interesse che il giovane fiorentino mostra per i fatti dello spirito, gli racconta il più celebre dei miracoli compiuti da San Francesco a Gaeta: mentre si costruiva la chiesa, un carpentiere, o forse un muratore, rimase schiacciato da una trave; appena lo seppe, il frate di Assisi accorse e, pregando, si avvicinò al lavoratore morto e tracciò una croce sul suo corpo, poi lo chiamò per nome a voce alta e questi resuscitò[29].

La conversazione dura ancora un poco, poi ciascuno riprende il filo di quanto stava facendo.

Congedandosi da quelle persone così piacevolmente socievoli e immerse nei fatti dello spirito, Filippo riprende il cammino e riflette su quella memoria di un miracolo che la gente si era trasmessa per tre secoli, continuando a tenerla viva di generazione in generazione, e pensa che ora sa della richiesta dei cittadini che avevano trattenuto Francesco a Gaeta, e suppone che vi fosse giunto per lo stesso motivo di San Benedetto da Norcia: andare a visitare il luogo dove, secondo la vox populi, vi era una delle montagne che si spaccarono alla morte del Redentore.

Il giovane toscano apprezza molti aspetti della Regola di Benedetto[30], come l’introduzione del ruolo dell’abate, termine derivato dal siriaco abba, “padre”, che rappresenta un “padre amoroso” e non un “superiore”, ma non accetta il principio di stabilitas loci, ossia l’obbligo di permanenza nello stesso luogo introdotto dal santo per combattere il fenomeno dei “monaci girovaghi”. Lui si sente girovago e tale gli sembra sia stato Francesco d’Assisi, e poi, meditando, conclude che se San Pietro non avesse lasciato la sua terra, sbarcando a Napoli e poi recandosi a Roma, non sarebbe mai stata evangelizzata l’Europa[31].

Filippo si trova ora tra la via che conduce al porto, l’altra che va verso la spiaggia e il sentiero che porta in alto dove c’è la vista panoramica.

Non ha scelto dove andare, ma non si ferma, come gli era accaduto una volta a Firenze quando, uscendo dal convento in un giorno limpidissimo che prometteva di svelargli il vero volto di ogni luogo noto o ignoto, prese a camminare spedito e senza meta per una lunga passeggiata in cui ogni passo sembrava trarre senso dal successivo, e, badando bene di non tornare mai per la stessa strada, percorse tutti i paraggi giungendo infine a casa con la sensazione di aver fatto il giro del mondo. Ora, a Gaeta, è andato un po’ oltre, perché il luogo gli è veramente ignoto e, sebbene senta il procedere come qualcosa che dà senso alla vita, perché l’esigenza del tempo interiore trova compimento nell’esperienza dello spazio, ha necessità di sapere dove lo porta quel sentiero in salita, e chiede a una donna che lo percorre in discesa, con un rosario tra le mani.

La risposta è sintetica e chiara: “Porta alla montagna che si spaccò alla morte di Nostro Signore”. Filippo sorride, ringrazia e procede, ma pensa al rosario della donna e si chiede se sia un segno. I frati di San Marco gli avevano raccontato che proprio il fondatore del loro ordine, San Domenico, aveva avviato la pia pratica nel 1208, dopo che la Vergine gli era apparsa e gli aveva donato una coroncina, che il santo chiamò “corona di rose di Nostra Signora”, da cui “rosario”.

Decide di considerarlo un segno rivolto a lui, per invitarlo ad andare a vedere da vicino le rocce infrante[32].

Prosegue in salita. Sulla destra, come bassa cornice del mare, vede fitte distese di piccoli fiori gialli, molti di una varietà a petali lucidi, mentre a sinistra, più a fianco di monte, giganteschi campanelli di due colori, blu e viola, sulla stessa pianta, come non ne ha mai visti prima, e invece qui li scorge anche arrampicarsi tra le canne e sugli agili tronchetti degli arbusti.

Alzando lo sguardo fino alla cupa tinta quasi oltremare della sommità di un cielo dalle terse trasparenze azzurre, è incantato da voli di uccelli che sembrano indicargli il cammino, che gli pare essere stato breve nel raggiungere il piano di un sentiero diritto, dal quale si sente invogliato ad affrettare il passo fino a una piccola ascesa che prelude al punto in cui si può vedere dall’alto il picco a mare della scissura.

Nel mezzo della frattura, a una quarantina di metri d’altezza dal mare – gli hanno raccontato – un masso era rimasto incastrato tra le rocce, così fermo che nel 1434 vi avevano costruito sopra una piccola cappella per la devozione di un crocefisso, ma che per l’esposizione all’azione erosiva del vento che porta anche l’acqua delle mareggiate, il cui rombare sale verso l’alto e fa fremere ogni cosa, andava sempre più in rovina, fino a quando nel 1514, un anno prima della sua nascita, il castellano di Gaeta don Pietro Lusciano l’aveva fatta riedificare. Ma intanto, nel tempo trascorso, la cappellina è stata nuovamente danneggiata dagli elementi[33].

Filippo si ferma sul ciglio della frattura e volge lo sguardo prima in alto, verso il cielo luminoso, e poi in basso, a scrutare nell’ombra tra le due pareti, tanto vicine da sembrare di potersi riunire in qualche punto. Deve scendere in uno stretto ripido passaggio senza gli scalini di oggi, per trovare qualche gradone battuto più avanti, nel cupo seno della roccia, dove sul masso incastrato spera di trovare la cappellina del crocefisso. Comincia cauto a scendere. Non ha paura. Ha fede ed è emozionato.

Sa che sono stati lì in dimora e preghiera San Benedetto da Norcia e San Bernardino da Siena, ma non sa se a quel tempo siano scesi nella scissura. Chinandosi un poco per non battere la fronte contro una roccia, si ferma a notare che le sporgenze di un lato hanno un impressionante riscontro complementare nelle rientranze dell’altro, poi prosegue un po’ nella discesa. Si ferma quando, alzando il capo, gli pare di non riuscire più a scorgere il cielo e, mentre osserva il colore delle rocce, reso più suggestivo in quella stagione dalle tinte dei licheni, nota alla sua destra come l’impronta di una mano pigiata sulla superficie della parete, con i fori dove sarebbero entrate le dita, se la pietra fosse stata molle e cedevole come di creta. Istintivamente pone la mano destra nell’impronta, infilando indice, medio e anulare nei fori, poi si accorge che aprendo bene la mano trova anche il posto del pollice, su quella che sembra l’impronta slargata di una mano già grande. E nota che la parte sovrastante i fori è rigonfia, con l’aspetto che ha una massa pastosa se penetrata da elementi consistenti come le dita.

Scende ancora e, con sorpresa, trova davanti all’accesso della cappellina del crocifisso un antro, come una piccola grotta, la cui parete sulla destra presenta una sorta di nicchia nella roccia dove gli sembra che ci si possa sdraiare, magari rimanendo un po’ rannicchiati. Poi entra, si dirige verso l’altarino e il crocefisso, e rimane assorto in preghiera.

Se quella è davvero una delle montagne che secondo il Vangelo si spaccarono alla morte di Cristo, come avevano creduto tanti prima di lui, allora deve considerarsi un luogo veramente sacro, dove Dio si è manifestato attraverso un segno di valore universale come l’inaudita potenza di una forza che spacca in un momento dal basso all’alto le rocce di un monte che paiono fisse, eterne, inamovibili a sfidare secoli e millenni. Perché proprio qui questo segno? Si chiede. Forse perché è nel mezzo della più ampia insenatura del Tirreno, in un punto centrale per le navi di tante rotte e perché è allo stesso tempo isolato tra cielo e mare ma vicino a tante diverse genti, quante solo a Roma e a Napoli ve ne giungevano fin dai tempi più remoti da tutto il mondo.

Pensa anche che, se vi fosse stato un religioso a dimorare in qualche modo presso quella cappella, gli avrebbe chiesto ospitalità.

Decide di andar via prima del tramonto ma si ripromette di tornare e, mentre discende il sentiero verso il mare e sente intensa l’attrazione per la vita contemplativa, avverte già la mancanza della gente che ha conosciuto qualche ora prima presso l’odierna Via Indipendenza. E pensa che non si può amare Dio senza amare il prossimo, ma certamente non si saprebbe mai come amare gli altri se non si amasse Dio.

E si chiede come e perché senta nostalgia delle creature del mondo appena se ne allontana, e trova risposta in un concetto di Tommaso d’Aquino: siamo fatti così perché la creazione è un atto trinitario in cui c’è lo Spirito che ci attrae verso la contemplazione, il Figlio che ci fa vedere e conoscere con la sua incarnazione le creature e, infine, il Padre che è la prima virtù a cui si riconduce ogni senso, compiendo la sintesi dei nostri sentimenti. E ricorda i versi di Dante, del suo Tommaso, santo in Paradiso: “Però se ’l caldo amor la chiara vista / de la prima virtù dispone e segna / tutta la perfezion quivi s’acquista”[34].

Cosa fare? L’isolamento claustrale per una vita contemplativa e ascetica non gli sembra realmente cristiano: come si ama il prossimo se non lo si incontra mai? Anche Savonarola che stava in monastero isolato come il Battista nel deserto, andava poi a predicare fra la gente. Si ricorda che Gesù dice: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”[35].

Intanto, è giunto giù dal monte a pochi passi dalla spiaggia, e vi si dirige, e poi comincia a percorrerla, andando verso il mare e guardando le onde piccole, lente e calme che prima brillano nel sole e poi entrano nell’ombra delle rocce sull’acqua e giungono a bagnare quasi silenziose la riva.

Gli torna in mente un guitto, forse un giullare, che a Firenze chiamò un sacerdote che usciva dal Battistero di San Giovanni e gli chiese: “Prete, sai chi ha detto: ‘Il passato non c’è più, il futuro è incerto: esiste solo il presente’. Lo sai?” E il sacerdote: “Epicuro?” Il guitto di rimando: “Santa Caterina da Siena! Capito? È oggi che devi amare il prossimo, che devi scegliere, decidere e vivere!” Filippo pensa che aveva imparato più da quel guitto che da tanti teologi. E oggi doveva scegliere e decidere: fare qualcosa subito.

 

5. Filippo elegge la Montagna Spaccata a luogo di dimora temporanea del suo spirito. Filippo sentiva la sua coscienza espansa, come al risveglio da quei sogni giovanili senza tempo, perché senza Dio, che non ti allontanano dalla realtà ma te la fanno vedere e concepire in un modo del tutto diverso da prima, come in una prospettiva dall’alto, come se tu stessi vivendo in un futuro interminabile e i quadri di vita del presente ti apparissero come immagini o del possibile o del passato. Ma non era turbato, perché si sentiva pienamente padrone di sé stesso e considerava quegli stati della mente, che noi tendiamo a interpretare in chiave psicologica, pure disposizioni dello spirito.

Era determinato a conoscere nuove persone e a cercare in quelle propense a fraternizzare occasioni per l’esercizio delle opere di misericordia, certo che, riunendosi nel nome del Signore, avrebbero avuto la Sua presenza spirituale fra loro, e non sarebbero mancati in quei contesti lumi e spunti profetici sulla direzione da prendere nella vita.

Mentre si dirige verso un gruppo di pescatori indaffarato a preparare barche e reti presso la banchina del porto, è attratto dal parlar toscano di Fiorenza di tre uomini che discutono animatamente delle condizioni del popolo romano. Allora si avvicina, si presenta e domanda come mai si trovino a Gaeta. I tre non si fanno pregare e, alternandosi nel prendere la parola, raccontano di come siano accorsi a difendere Roma dall’invasione dei Lanzichenecchi e della Lega antipapale che nel 1527 operò distruzioni, massacri e quel gigantesco saccheggio che va sotto il nome di Sacco di Roma. Il più loquace spiega: “Messer Giovanni dalle Bande Nere, l’unico buono a difendere gli stati italiani da Carlo V secondo Machiavelli e che il Salviati diceva valesse più di un esercito, aveva sconfitto e allontanato i Lanzichenecchi giunti in Italia ma, morto lui, quelli hanno preso Milano e poi, al soldo di Carlo di Borbone, con l’esercito spagnolo e le milizie del Sacro Romano Impero sono calati su Roma…”

Lo interrompe uno dei due amici che porta un cappello piumato: “Ma Carlo di Borbone fu subito messo fuori combattimento dal nostro Benvenuto Cellini[36], grande orafo e giovane scultore in Firenze che di certo conosci, il quale gli ha sparato una palla di archibugio colpendolo a una gamba…”

Riprende il primo Fiorentino: “Fatto sta che gli invasori l’ebbero vinta: massacrarono circa ventimila Romani, altri diecimila fuggirono e, dei superstiti, più di trentamila morirono per la peste portata dai Lanzichenecchi. Non potendo uccidere Papa Clemente VII, che si era rifugiato in Castel Sant’Angelo, trucidarono quasi duecento armati della guardia svizzera. Portarono distruzione e disperazione ovunque. Noi tre siamo stati tra quelli che hanno cercato di aiutare il popolo scampato a guarire dalle ferite morali e materiali, e per un po’ di tempo ci siamo riusciti. Ma ora, che si è tornati alla vita normale, impera il degrado, la delinquenza, il malaffare, e troppi hanno perso la fede, sicché siamo venuti qui, dove sono numerosi gli uomini probi e timorati di Dio, per reclutare volontari che ci aiutino a portare la buona novella a questa gente provata da tanti flagelli.”

Filippo è ammirato e si ferma a conversare con i suoi concittadini, e così viene a sapere che uno di loro, parente di un capo della Dogana di Roma di nome Galeotto Caccia, anche lui Fiorentino, conosce la sua famiglia. Si congeda e, ripromettendosi di andare a Roma se il Signore lo vorrà, si avvicina ai pescatori.

Non impiega molto a entrare nelle simpatie degli uomini di mare e, dopo qualche scambio sull’importanza del lavoro a terra per una buona pesca e qualche facezia e motto spiritoso, il giovane toscano chiede cosa ne pensino loro circa il fatto che la Montagna si sia spaccata proprio alla morte di Cristo.

Il pescatore più intento nel riparare una rete e fino allora rimasto in silenzio, alza il capo e gli dice con serena fermezza che la prova certa dell’epoca in cui è avvenuta la frattura della roccia è sotto i piedi e davanti agli occhi di ogni visitatore: le rovine della villa di Munazio Planco. Che senso avrebbe avuto costruire una villa spaccata nel mezzo sopra la scissura?[37] Il governatore della Gallia e della Siria in quella villa era morto quindici anni prima della nascita di Cristo.

Filippo pensa che quel fatto esclude una schisi avvenuta in epoca remota e la colloca in un tempo posteriore alla costruzione della villa, ma non fornisce la certezza che l’evento si sia verificato nel 33 d.C., o giù di lì, considerando l’errore di calcolo di alcuni anni nelle date antiche, di cui tanto si parla in quel periodo[38]. Allora chiede ai pescatori cosa ne pensino loro dell’autenticità della tradizione, e uno, a nome di tutti, gli narra la leggenda della mano del Turco: un miscredente, che era sceso tra le rocce con dei pii fedeli, sentì il racconto della montagna spaccata per la morte del Redentore secondo il Vangelo di Matteo, e con atteggiamento di sfida disse che quella storia era tanto vera quanto poteva essere vero che quella durissima roccia si rammollisse e ricevesse l’impronta della mano che aveva appoggiato alla parete[39]. E qui il miracolo: la roccia si fa morbida come pasta, fra lo sgomento dei presenti, e il non credente affonda la mano e perde l’equilibrio.

A quelle parole Filippo pensa: ecco cos’era quell’impronta sulla roccia.

Noi oggi disponiamo di numerosissime narrazioni di questo fatto leggendario, ma molti degli autori degli ultimi tre secoli attingono a due fonti principali, entrambe del Seicento e fra loro collegate: Pietro Rossetto (1689), che a sua volta si rifà a Johannes Cajetani (1638)[40]. Per Cajetani l’ateo che ha lasciato l’impronta della mano è semplicemente un quisnam, e Rossetto lo segue definendolo “un uomo”[41]; apparentemente non raccogliendo la tradizione orale che lo definiva “Turco”, appellativo che fin dal Medioevo a Gaeta, e altrove in Italia, era impiegato come sinonimo di miscredente. Ma poi Rossetto, parlando della vicina Grotta del Turco, scrive: “Dicono che abbia qui approdato la prima volta quell’incredulo, che lasciò l’impronta della mano nella roccia, per aver messo in burla l’apertura miracolosa della montagna. Da qui forse il nome di Grotta del Turco”[42].

Filippo, forse anche per la sua giovane età, è fortemente impressionato dal racconto del miracolo e decide di ritornare per osservare attentamente e meditare. Ma prima di lasciare i pescatori, fra i quali vi era uno che lo avrebbe ospitato per la notte, domanda quale sia l’atteggiamento del clero gaetano. Gli dicono: i sacerdoti sono prudenti e in maggioranza non vogliono che si parli di miracolo per l’impronta della mano, temendo che si possa screditare anche la tradizione della Montagna Spaccata. Rimane il fatto, osservano i pescatori, che un effetto simile non si può produrre con lo scalpello e, anche se non si tratta di un miracolo riconosciuto dalla Chiesa, deve essere accaduto qualcosa di prodigioso.

Il mattino successivo Filippo si è recato di nuovo in visita alla scissura e, dopo essere disceso fino al punto che oggi corrisponde al ventottesimo gradino della scalinata che porta alla cappellina del crocifisso, si ferma.

Dopo aver ascoltato il racconto del miracolo della “mano del Turco” e aver meditato su ogni suo aspetto, e aver sentito dentro di sé un moto di ribellione razionale ad accettare l’idea che un evento letteralmente impossibile possa essere realmente accaduto, nell’avvicinarsi nuovamente all’impronta sulla roccia della “mano del Turco” e nel pensare di voler provare nuovamente, come si prova un guanto, se effettivamente quei fori e quell’impressione possano essere di una mano umana, si rammenta di uno che per credere voleva toccare con mano.

Sì, si sente come l’apostolo Tommaso, che non aveva creduto all’apparizione del Cristo risorto e diceva di voler mettere la sua mano nella ferita del costato di quell’uomo e il dito nel foro dei chiodi, per credere che fosse veramente Gesù. Il Maestro accontentò il suo apostolo: apparve di nuovo e gli lasciò verificare coi sensi la realtà materiale del corpo risorto. Filippo pose la sua mano nell’impronta per la seconda volta e pensò che solo una mano umana avrebbe potuto fare a calco ciò che vedeva e toccava.

Fece allora una riflessione autocritica sul suo rifiutarsi di credere che quel prodigio venisse dal Cielo: il credere nel miracolo non si basa su una plausibilità in base alla possibilità materiale o fisica del verificarsi di un fenomeno; infatti, cosa c’è di meno possibile della resurrezione di Lazzaro morto da tre giorni? Si crede nel miracolo per la fede nel suo autore. Dunque, la questione dovrebbe essere posta in questi termini: ho modo di sapere se quel prodigio sia opera di Dio? I miracoli di Gesù ebbero dei testimoni, e Giovanni, l’evangelista preferito da Filippo, era stato un testimone costante della vita pubblica del Maestro.

I testimoni del prodigio del rammollimento della roccia non hanno lasciato alcuna traccia scritta e, dunque, è per noi come se non ve ne fossero mai stati. Rimane un fatto inspiegabile, di quelli che oggi non esitiamo a definire “misteriosi”[43], ma che per il giovane venuto da Firenze è un segno, circa il quale si pone questi due interrogativi: allora chi lo ha prodotto? E perché lo ha fatto?

Continua nella discesa fino alla cappella del crocefisso e prende una decisione: rimarrà lì in digiuno e preghiera, e dormirà su quella pietra in quella specie di piccolo vano di roccia che oggi si chiama “Letto di San Filippo Neri”.

 

6. Le esigenze di ogni stile di vita necessitano di un adeguato e coerente supporto neurofunzionale. Come è possibile la mortificazione penitenziale del dormire nel seno della roccia, sulla nuda, durissima e scomoda pietra, nel freddo e umido buio, conservando serena stabilità, se non grazie a una ricchezza interiore e al gioioso buonumore di cui si legge?[44]

Oggi sappiamo che coltivare l’atteggiamento mentale che tende a cogliere gli aspetti divertenti della realtà e a giocare con le strutture simboliche delle parole, come si fa nell’umorismo, o delle figure di rappresentazione, come avviene nella comicità, contribuisce ad assicurare un regime di attività cerebrale che previene e contrasta l’assetto funzionale ansioso e depressivo, potenzialmente innescato da esperienze frustranti quali l’isolamento, il digiuno, il dormire sulla pietra e l’evocazione di sensi di colpa nella contrizione penitenziale per i peccati compiuti. Dunque, il talento umoristico del giovane fiorentino deve essere stato una risorsa a sostegno di un buon equilibrio psichico anche nella consuetudine penitenziale.

Si vedrà poi, quando fonderà a Roma la sua congregazione, come Filippo Neri saprà mettere a frutto queste sue capacità: la scuola di vita finalizzata nel suo intento alla conversione delle giovani anime consiste indubbiamente in una pedagogia cristiana, ma non ricerca le forme e i modi originati dalla sensibilità ebraica, segue invece uno stile di pura cultura popolare italiana, e specificamente fiorentina.

Ma è difficile, se non impossibile, comprendere lo spirito di Filippo e di tanti presbiteri fiorentini di quel tempo senza conoscere il Piovano Arlotto, almeno per quei tratti salienti che hanno lasciato un’impronta indelebile nella città di Firenze.

Arlotto Mainardi detto Piovano o Pievano Arlotto (Firenze, 1396-1484) fu parroco della pieve di San Cresci e poi dimorò presso l’Ospizio dei Pretoni, nell’Oratorio di Gesù Pellegrino presso la chiesa sita tra Via San Gallo e Via Arazzieri dove si visita la sua tomba. Fu il fautore di una pedagogia cristiana in cui l’evangelica “correzione fraterna” spesso consisteva in una burla o beffa concepita come contrappasso giocoso ai danni del peccatore impenitente, affinché potesse prendere coscienza del proprio vizio e vergognarsene per il ludibrio cui era esposto o semplicemente trovare un’occasione per ridere di sé, se si trattava di un difetto veniale.

Le sue burle ebbero così tanta fama da dare origine a un genere pittorico in cui si raffigurava la scena più significativa dello scherzo. Alla Galleria Palatina di Palazzo Pitti si può ammirare il dipinto del Volterrano La burla del vino del Piovano Arlotto: il Pievano, invitato a pranzo con altri sacerdoti da un oste avaro, quando finisce il vino ne va a prendere in cantina con una brocchetta ma, al ritorno, si finge ubriaco e ha in una mano la brocchetta colma e nell’altra il tappo della botte, per far credere all’avaro proprietario di averla svuotata tutta[45].

Una ricca letteratura fiorita sulle burle del Piovano[46], insieme con i libri pubblicati da altri a suo nome, hanno creato un’aneddotica di pura invenzione. Lui in realtà non scrisse nulla, e l’unica raccolta di suoi motti e facezie che ha probabilità di essere vicina al vero, perché curata da un suo amico, è il manoscritto realizzato dal copista Giovanni Mazzuoli di Strada detto “lo Stradino”, che si trova presso la michelangiolesca Biblioteca Laurenziana[47]. E deve intendersi quanto meno romanzata la narrazione che lo vede come un reprobo che l’arcivescovo cercava di redimere e poi cominciò a perseguitare, creandosi una rivalità sfruttata per trame teatrali novecentesche, a partire dalla commedia di Giulio Bucciolini[48].

È vero e documentato che Arlotto fu punito per alcuni giorni con la privazione della libertà, rimanendo in custodia detentiva presso il palazzo vescovile a causa di un’irriverente facezia, ma si trattò di un episodio isolato, perché l’arguto sacerdote era un pastore di profonda conoscenza teologica e intensamente dedito alla pratica del suo ministero, non era certo un peccatore impenitente da convertire, e il suo arcivescovo non poteva corrispondere al personaggio dipinto in queste biografie[49]. Infatti, gli autori di queste narrazioni, composte attingendo in modo superficiale e indiscriminato a fonti spesso poco attendibili, ignorano due cose dirimenti per importanza: la prima è che l’Arcivescovo di Firenze Antonino Pierozzi non era altri che Sant’Antonino, noto per la docile mansuetudine, la propensione all’amorevole comprensione dei fratelli e la fede nella pratica del perdono e nella teologia della misericordia; la seconda è che il Santo era cugino di Arlotto Mainardi e ne conosceva personalmente il cuore e le virtù sacramentali.

Se Savonarola, con le sue prediche apocalittiche, con le continue minacce del fuoco eterno, con le vere e proprie invettive contro i peccatori che, ricordiamo, non hanno riscontro nello stile del Buon Pastore tramandato dai Vangeli[50], rappresentava la pars destruens del cristianesimo, il Piovano incarnava la pars costruens. Per il frate domenicano di San Marco, tutto ciò che non è sofferenza, rinuncia, privazione, contrizione e mortificazione è male; per il Piovano tutto ciò che non è peccato può essere volto al bene per onorare il Signore e contribuire a edificare nel singolo e nella comunità il Regno dei Cieli.

Del Piovano Arlotto dice Foresto Niccolai: “Per tutti aveva una parola gentile e qualche bella novella da dire. Ne raccontò un numero infinitamente grande, e tale che certo un intero volume, seppur ponderoso, non basterebbe a raccoglierle tutte. Diventato già ai suoi tempi famoso per questa straordinaria abilità, tanto che parecchi Fiorentini ambivano conoscerlo e farselo amico, ancora oggi viene ricordato per alcuni originalissimi motti”[51]. Ma nel suo impegno pastorale missionario, durante il quale andava a leggere le sacre scritture davanti alle botteghe degli artigiani che per mancanza di tempo, di lettere e di modo non potevano farlo, era estremamente serio e rigoroso. Infatti, quando leggeva i testi sacri non accettava interruzioni e facezie, così che nacque il detto fiorentino, che ancora oggi si sente ripetere: “Il Piovano Arlotto legge sempre nel suo libro”[52].

A testimonianza di quanto lo stile brillante dell’Arlotto e il suo gusto per il buffo non superficiale che spinge fino alla riflessione teologica abbia inciso sul costume e sulla cultura della città del giglio, quattro secoli dopo i suoi giorni, nel 1858, fu fondata in Firenze la rivista letteraria e satirica “Piovano Arlotto”, alla quale collaborarono Giuseppe Mazzini, Victor Hugo, Niccolò Tommaseo, Giuseppe Montanelli e tante altre personalità.

Le burle si possono considerare una versione educativa delle beffe, già comuni nel Medioevo, e la loro concezione si può far risalire alla cultura delle pene minori intese come mezzi per correggere un vizio o un difetto e, allo stesso tempo, proteggere le persone potenzialmente esposte al rischio di subire danni da chi pone in essere la condotta riprovevole. In fondo, la stessa pena dell’Acculata del Porcellino, che esponeva al pubblico ludibrio falsari, bancarottieri, frodatori e debitori insolventi ha questa origine[53].

Ritorniamo a Gaeta dal nostro Filippo che, dopo essere stato in preghiera alla Montagna Spaccata, ha preso una decisione: promuoverà la costruzione di una cappella nel luogo che precede la discesa nella scissura per consentire, a tutti i fedeli che lo desiderino, di pregare senza necessariamente avventurarsi tra le rocce spaccate per giungere alla cappella edificata sul masso incastrato e sospeso nel vuoto[54].

 Ha poi visitato il Mausoleo di Munazio Planco in cima al Monte Orlando, è disceso per i tornanti del versante opposto a quello percorso in salita e ha trovato la Cattedrale di San Francesco, dove si è fermato a lungo a pregare, e poi ha chiesto ai frati se i Servi di Maria Santissima Annunziata anche a Gaeta come a Firenze hanno eretto una chiesa con ospedale. Ottenute le informazioni, percorrendo il lungomare nella direzione indicata, si è recato all’Annunziata, chiesa consacrata nel 1354 con un’annessa corsia ospedaliera. Ed è qui assorto a pregare e meditare.

Gli si avvicina un sacerdote diocesano e gli chiede su cosa stia meditando, e lui risponde che si interroga su come sia più giusto comportarsi per l’imitazione di Cristo, come i frati o come i presbiteri. Il prete non ha dubbi: “Il monachesimo ha fatto un gran bene al mondo per secoli con gli studi, le scuole, gli ospitali, e lo sfamare, vestire, alloggiare i bisognosi, e con tante opere di ingegno e arte nel nome di Dio, e i monasteri vanno ancora bene nelle zone romite perché sono luogo e modello di società cristiana per la gente lontana, dispersa e isolata, ma nelle città c’è bisogno di sacerdoti che stiano fra la gente, come lo sono stati il Maestro e i suoi discepoli, e che possano dare priorità alle esigenze spirituali della comunità rispetto agli obblighi della Regola”.

A Filippo la semplice concretezza dell’argomentazione sembra assolutamente convincente e, per avvalorare questa tesi, nota che il Messia nella vita pubblica non fa altro che predicare, insegnare, spiegare le scritture e operare miracoli per sanare l’anima e il corpo della gente, e poi ammonisce di non fare come i pagani che con tante parole vogliono persuadere i loro dei, ma di pregare nel modo semplice e sublime dell’unica preghiera da lui insegnata: il Padre Nostro.

“Si, è vero – commenta il diocesano – ma questo non vuol dire che Gesù non si isolasse per pregare da solo o che pregasse poco per stare sempre in mezzo alla gente. Hai letto dopo la moltiplicazione dei pani? In Matteo 14, 23: Congedata la folla salì sul monte, in disparte, a pregare. In Marco 6, 46: Quando li ebbe congedati andò sul monte a pregare. In Luca 6, 12: In quei giorni egli se ne andò sul monte a pregare e passò tutta la notte pregando Dio. Ancora Luca 9, 18: Un giorno Gesù si trovava in un luogo solitario a pregare. In Giovanni 6, 15: Ma Gesù, sapendo che venivano a prenderlo per farlo re, si ritirò di nuovo sul monte, lui da solo. E, infine, Marco 1, 35: Al mattino presto si alzò quando era ancora buio e, uscito, si ritirò in un luogo deserto, e là pregava”.

Filippo pensa che proprio quelle citazioni del Vangelo gli erano state indicate a motivo del regime dei domenicani di San Marco ma che, forse, è giusto il modo in cui le intende il diocesano; anche se la statica appartenenza di questi a una comunità parrocchiale non gli sembra ricalcare la predicazione itinerante inaugurata da Cristo stesso con le due missioni dei discepoli narrate nei Vangeli e proseguita con i viaggi di evangelizzazione degli Apostoli e con la tradizione missionaria della Chiesa.

Ma era perfettamente consapevole che il problema che si poneva non era quale modo fosse il più giusto – ciascun modo è giusto quando compie la volontà di Dio – ma capire come avrebbe voluto e dovuto vivere la sua vita. Comprendere se gli era dato di scegliere o se vi fosse un piano prestabilito da riconoscere.

Filippo pensava che la penitenza e la mortificazione cristiana erano viste da molti come vivere nella tristezza, nell’angustia, nel dolore, in uno stato di rinuncia a tutto ciò che possa sollevare l’animo dagli affanni e costituire gioia e piacere, ma per lui non era così; infatti, provava gioia nell’offrirsi a Dio, e si era convinto di dover testimoniare proprio questo: la gioia nel dono di sé quale essenza della vita cristiana.

 

7. Filippo cerca con l’intelletto nella storia e trova persone esemplari: modelli del mondo. Prima ancora che possa sedersi con loro, mentre ancora saluta, Filippo si vede porgere dai pescatori la sua parte di rete da snodare, secondo l’accordo preso di aiutarli in cambio di un tozzo di pane che consisterà, forse, nel prendere un pasto insieme. Il Fiorentino, confessando con umiltà di non conoscere la storia, si dice curioso di sapere perché si dice che il Ducato di Gaeta abbia avuto un ruolo importante nel salvare l’Europa dall’invasione degli infedeli.

Il proprietario delle barche si avvicina, siede accanto a lui e prende a narrare:

“Già nell’812 Gaeta aveva una flotta militare tra le più potenti e temute del Mediterraneo, quando andò in soccorso di Gregorio, governatore della Sicilia, e sconfisse la flotta araba al largo di Lampedusa. Ma la nostra grande storia comincia quando Gaeta diventa Repubblica Marinara. La nostra marineria ha avuto un ruolo fondamentale nell’849, nella Battaglia di Ostia, ora immortalata da Raffaello Sanzio in una delle Stanze vaticane. Gli Arabi avevano già una volta invaso Roma, ma questa volta, dopo lo sbarco a Mazara del Vallo e dopo aver conquistato tutta l’Africa settentrionale, la Spagna meridionale e gran parte della Sicilia, il loro piano era sbarcare a Ostia, distruggere Roma e invadere dall’Italia tutta l’Europa, cancellando la cultura cristiana e portando l’Islam. Il Duca Sergio di Napoli costituì la Lega Campana con Gaeta, Amalfi e Sorrento e vi mise a capo il suo figlio secondogenito, il Console Cesario, il quale si recò dal Papa Leone IV in Laterano.” Si interrompe per una bevuta d’acqua e poi riprende:

“Leone IV scrisse per loro una preghiera che è rimasta nella liturgia cristiana di tutto il mondo e si recò a Ostia per benedire la flotta. All’inizio dello scontro, Cesario riuscì ad affondare alcune navi nemiche, ma poi le sorti della battaglia divennero alquanto incerte e i Saraceni nel corso della giornata sembravano prevalere. A questo punto scoppiò una terribile tempesta che colse i navigli belligeranti di sorpresa. E qui, la grande tecnica di navigazione dei marinai di Gaeta, imitati dagli altri della Lega, consentì alle galee cristiane di compiere delle manovre che le posero nelle condizioni migliori per affrontare la furia degli elementi e rimanere indenni, mentre le navi arabe in gran parte affondarono[55].” Dopo una breve pausa, spiega:

“La storia è lunga e le storie sono tante. Nel 915, ad esempio, il Duca di Gaeta Giovanni I promosse la costituzione della Lega Cristiana che sconfisse i Saraceni nella Battaglia del Garigliano…”

Filippo osserva che si tratta di eccellenze militari. Ma gli rispondono che la loro grande tradizione è nella navigazione per esplorazioni, viaggi e commercio fin dalle epoche più remote, poi la costituzione in Repubblica Marinara, fino a diventare potenza militare marittima, è stata conseguenza di vicende storiche. Alla curiosità del Fiorentino sui navigatori gaetani, gli rispondono con l’indicazione del luogo dove c’è l’attracco dei grandi velieri e vi può trovare persone adatte a soddisfare il suo desiderio di sapere.

Gli armatori e i navigatori accolgono Filippo con grandissima cordialità, come concittadino di Amerigo Vespucci e Giovanni da Verrazzano, e gli propongono la personalità dell’esploratore di mare originario della loro città come un modello di perizia, tenacia, equilibrio e costanza: un uomo che vive per fare scoperte geografiche.

A Gaeta si narra e si disputa ancora di un giovane talento della navigazione, marinaio e geniale progettista di navigli e strumenti di navigazione, costretto dalla sconfitta degli Angioni da parte degli Aragonesi ad emigrare con tutta la famiglia a Venezia, dove aveva ricevuto la cittadinanza dopo quindici anni di residenza: Giovanni Caboto, lo scopritore del Canada.

Per oltre due secoli, come attesta il Codex diplomaticus cajetanus[56], la Repubblica Marinara di Gaeta aveva conferito alla famiglia Caboto, presente in città con continuità generazionale dal XIII secolo, incarichi di responsabilità e prestigio politico, economico e sociale. Storicamente, i Caboto a Gaeta erano stati ambasciatori e consoli, oltre che navigatori e mercanti[57]. Filippo sente i racconti dei navigatori che lamentano come un torto fatto a tutti i cittadini di Gaeta l’allontanamento forzato di un talento geniale come Giovanni Caboto, solo per le simpatie politiche della sua famiglia.

Il giovane Fiorentino chiede di narrargli in breve come nasce l’impresa di Caboto, allora il comandante di una caravella che ha raccolto testimonianze per scrivere un libro di viaggi, comincia dicendo: “Gaeta vanta una delle prime stamperie delle genti italiche, attiva dal 1487, dove spero possano essere impressi a caratteri mobili, in un volume, i fogli da me manoscritti sulle vicende dei nostri uomini illustri. Ti dirò in breve, l’essenziale; il resto lo leggerai nel libro stampato.

Giovanni Caboto era felicemente sposato a Venezia con Mattea, di cui era innamoratissimo e che gli aveva dato tre figli, uno solo dei quali, Sebastiano, è diventato navigatore come il padre, ma i suoi progetti ambiziosissimi, come il trovare una rotta occidentale per raggiungere l’Asia non erano alla portata dei governanti veneziani. Allora andò a Valencia a dirigere i lavori di ampliamento del porto per conto di Ferdinando II d’Aragona ma presto, per una crisi finanziaria, i lavori si fermarono: era il 1493 e Cristoforo Colombo tornava in Spagna dicendo di aver raggiunto le Indie. Probabilmente in quell’anno Caboto ha incontrato Colombo. Per farla breve, Caboto è convinto, in base agli studi che ha fatto, che una rotta più settentrionale consente un viaggio molto più breve per raggiungere l’Asia”.

“Ma a Valencia non c’era Amerigo Vespucci?” Lo interrompe un armatore.

“No, il Vespucci incontra Colombo a Siviglia”. Lui risponde.

“Giusto, a Siviglia.” Conferma l’altro.

“Caboto – riprende il comandate della caravella – convinse Enrico VII d’Inghilterra a concedergli le lettere patenti e, ottenuto il finanziamento dei banchieri fiorentini Bardi e di un ricco mercante gallese, armò cinque navi ma, non si sa perché, partì con una sola, alla quale diede il nome di sua moglie, naturalmente scritto in inglese: Mattew[58]. Partì nel giorno di San Giovanni del 1497 e infine giunse all’isola di Terranova[59]. Ma anche lui, come Colombo, ancora non sapeva di aver scoperto una terra del Nuovo Mondo”.

Filippo ringrazia e si allontana, mentre pensa fra sé e sé che questi sono “grandi uomini” per la storia, persone di capacità straordinarie, ma con la priorità pagana dell’impresa e la forza dell’ambizione vanagloriosa di affermarsi ed ottenere fama e ricchezza; capisce l’orgoglio di avere Caboto come concittadino, ma preferisce i pescatori.

Ma cosa avevano i Gaetani più dei Fiorentini? E cosa avevano meno di loro?

Al primo quesito gli sembrò di poter rispondere “nulla”, se pensava ai cittadini adulti impegnati nella polis ethica, nei fatti della città ai quali si legavano impegni, noie, preoccupazioni, ansie e problemi, e di rispondere invece “molto”, se pensava alla gente di mare che considerava il rapporto con la natura parte integrante della vita di tutti i giorni. Cosa avevano i Gaetani meno dei Fiorentini? In questo caso non aveva dubbi: lo spirito. Naturalmente inteso come esprit, e non nel significato di essenza spirituale, come lo intendo nel titolo del prossimo paragrafo.

 

8. Filippo cerca con lo spirito nel tempo e riconosce esempi di vita: modelli dell’anima. Dentro di sé Filippo ha già scelto tra Arlotto Mainardi e Girolamo Savonarola chi prendere a modello, ma la ragione gli dice che il rigore penitenziale del digiuno frequente e del distacco da tutte le cose del mondo, che aveva avuto il priore di San Marco, sia un mezzo indispensabile per la salvezza dell’anima.

Ha già scelto il Piovano per un motivo semplice: la compromissione con il potere politico di Savonarola e le vicende oscure e terribili legate dalla vox populi all’autorità del frate sulla Repubblica che aveva cacciato i Medici. Non era stato chiarito quanto dei fatti luttuosi accaduti in Firenze fosse da ascriversi a trame concepite dai membri del partito antimediceo all’insaputa del frate e quanto fosse stato compiuto col silenzio-assenso del religioso. Filippo ritiene l’agire allo scopo di ottenere o conservare un potere personale o sociale, anche al fine di amministrarlo secondo i principi della fede, una deviazione farisaica dal cammino spirituale. Così la pensava il Piovano Arlotto e, quando gli proposero un ruolo di prestigio nella gerarchia ecclesiale, fu sua la frase: “Preferisco il Paradiso!”[60]

Vediamo, per sommi capi, gli eventi che avevano gettato un’ombra su Savonarola e i suoi seguaci in politica.

L’anno della scoperta dell’America muore Lorenzo il Magnifico e due anni dopo, a distanza di due mesi l’uno dall’altro, sono assassinati in circostanze misteriose Agnolo Poliziano e Pico della Mirandola[61], due dei protagonisti con Leonardo da Vinci della vita culturale fiorentina. Morto Lorenzo, cacciati i Medici, la repubblica teocratica savonaroliana inaugurò un infausto periodo di condanne a morte denominato “Terrore Piagnone”, dal soprannome di Piagnoni attribuito agli integralisti savonaroliani per l’abituale esortazione del frate: “O fratelli e figliuoli miei piangete sopra questi mali della Chiesa!”, nelle sue invettive contro il clero romano[62].

I sospettati di aver tentato di favorire il rientro dei Medici in città, peraltro non avvenuto, sono condotti a processo dalla Repubblica savonaroliana. Fra questi c’è l’ultimo rimasto degli amici di Leonardo da Vinci in Firenze, il giovane Lorenzo Tornabuoni che aveva appena sposato la giovanissima e virtuosa Giuliana degli Albizzi in un matrimonio che aveva fatto sognare e commuovere tanti Fiorentini. Il giovane, secondo la documentazione storica era innocente o, al massimo, colpevole di un reato di opinione, quello di desiderare il ritorno ai fasti della cultura rinascimentale fiorentina che ora sopravvive alla corte papale romana.

Durante il processo, il Papa scomunica Girolamo Savonarola con bolla datata 13 maggio[63] e pubblicata in Firenze il 18 di giugno presso le chiese di Santa Croce, Santo Spirito, Santa Maria Novella e Badia Fiorentina; ma Savonarola non accetta la scomunica, dichiarando di considerarla nulla perché fondata su false accuse di eresia. Savonarola e i seguaci operano, dunque, in regime di illegittimità canonica. Non è cosa da poco, se si considera che il partito dei Piagnoni ha basato il suo consenso su un integralismo, sì puro e rigoroso, ma nella comunione di Santa Madre Chiesa.

Il processo che vede in Palazzo Vecchio tra gli imputati Lorenzo Tornabuoni giunge al termine con una richiesta di condanna a morte agli Otto di Balia. A questo punto, visto che il presunto reato di tradimento della Repubblica non ha avuto alcun effetto materiale, potrebbe aversi una richiesta di semplice ammenda o di grazia da parte di Savonarola che ne ha il potere.

Ecco cosa risulta dai documenti ritrovati dall’archivista della Misericordia Foresto Niccolai su quanto si dice in Palazzo Vecchio: “E gli altri? Nella sua cella del Convento di San Marco v’è Girolamo Savonarola che potrebbe dire una parola di pietà. La parola è richiesta, è attesa, ma non viene”[64]. Savonarola sa che Pilato, che pure voleva salvare Cristo ma non lo fa, lavandosi le mani, è colpevole davanti a Dio; ma il frate non interviene: sarebbe bastata una sua parola per salvare la vita di persone che il suo partito politico aveva condannato a morte[65].

Ecco il commento tratto dal diario domestico dello speziale Luca Landucci: “…Ognuno si maravigliò che fussi fatta tal cosa, né a fatica si poteva credere … che non fu senza lacrime di me, quando vidi passare a’ Tornaquinci, in una bara, quel giovanetto Lorenzo…”[66].

Che distanza dalle burle e dallo stile spensierato del Piovano che sembra particolarmente gradito alla gente di Gaeta!

Il modello del Piovano che il maturo Filippo Neri adotterà nel suo apostolato romano è costituito dall’uomo allegro che cerca la complicità giocosa nel compiere quel piccolo male che è la burla, per ottenere il gran bene della “presa di coscienza”; poi sviluppa questa pedagogia con i suoi ragazzi, prima inducendoli al riflettere sul gioco, e poi su quel che si fa in quel gioco che è la burla, per riportare la superficialità a ragione e la ragione a morale.

A Gaeta, Filippo considera un altro aspetto molto importante per lui che aspira alla gioiosa fratellanza nell’amore: i buoni rapporti di cooperazione e rispetto tra gli ordini religiosi che ha visto nella città laziale, che gli fanno pensare all’armonia degli inizi, ora perduta in Firenze, proprio per l’interpretazione politica del domenicanesimo da parte dei seguaci di Savonarola, entrati in rotta di collisione con i francescani che li considerano eretici.

Il legame tra francescani e domenicani durava da oltre due secoli e risaliva al Concistoro dell’11 agosto 1264, indetto da Papa Urbano IV sul Corpus Domini, in cui Tommaso d’Aquino presenta l’umile francescano Bonaventura da Bagnoregio, autore della prima biografia di San Francesco d’Assisi nota come Leggenda Major, quale massimo studioso del Corpus Christi. Bonaventura legge il suo Sermo de Sanctissimo Corpore Christi e Urbano IV, ammirato e commosso all’ascolto, con l’approvazione di tutti i cardinali, dichiara che nella bolla di magistero pastorale riporterà i concetti espressi nel sermone[67]. Bonaventura e Tommaso, nonostante il differente stile esistenziale, vivono per molti versi vite parallele, in gran parte a motivo dell’amicizia che li lega: entrambi sono docenti allo Studium Orvietano, entrambi collegano la sapienza patristica alla ragione filosofica greca, entrambi insegnano alla Sorbona e, infine, entrambi non accettano il ruolo arcivescovile metropolitano, in quanto Tommaso rifiuta ripetutamente la nomina ad Arcivescovo di Napoli e Bonaventura si appella al Papa con varie istanze per rifiutare l’incarico di Arcivescovo di York[68]. Infine, la concezione del corpo e dello spirito che permea la neoplatonica Accademia Fiorentina e ispira gli artisti del Rinascimento nasce proprio dallo studio di questi due dottori della Chiesa[69].

Questa antica armonia, ormai perduta in Firenze, a Filippo sembra esistere ancora a Gaeta, nella purezza spirituale e nella semplicità di cuore dei religiosi e della maggior parte delle persone incontrate. Per loro, come per lui, tutti i santi venerati erano modelli vivi e presenti con il loro esempio, ciascuno con i propri tratti esclusivi di genere, di epoca, di cultura, di storia, ma come tanti timbri diversi dello stesso coro che esegue lo stesso canto, quello dell’amore divino.

Ma poi, riflettendo, si rende conto che la condivisione di questa immagine della santità è la proiezione di un desiderio su una realtà che conosce poco, mentre sa bene che il male è potenzialmente in ciascuno di noi, e si costituisce già, a nostra insaputa, nell’assenza di bene.

Sente che l’esperienza spirituale vissuta in questo viaggio è stata intensa e non infruttuosa, perché sente che qualcosa sta maturando dentro di sé.

Nella prima ascesa alla Montagna Spaccata, quando si era ritrovato tra rami fioriti e profumati come in un eden sospeso tra cielo e mare, aveva sentito per un attimo tornare l’arcano desiderio infantile di uscire dal senso delle parole degli adulti sul mondo ed entrare nella verità della vita naturale che si promette infinita, in un sentiero di luce senza limiti e divieti. Ora questo gli sembra sia accaduto in un tempo così lontano dal presente, da sentirlo quasi estraneo. In quel primo giorno, in cui cercava un senso nuovo per la sua dimensione interiore, ed era tentato di farlo eleggendo delle suggestioni simboliche a specchio di identità, aveva anche pensato che doveva essere come Gaeta, isolato tra cielo e mare ma vicino a tutte le genti, come forse deve essere l’uomo di Dio.

In San Marco si meditava sulle domande che risalivano alla scolastica medievale e, in particolare, ad Agostino di Dacia: che cosa posso sapere, che cosa posso fare, che cosa è lecito sperare[70]; e l’insegnamento rispondeva che si può sapere tutto quanto si trova nelle sacre scritture e nei padri della Chiesa, si può compiere tutto il bene voluto dal Signore e richiesto dalle necessità dei fratelli, e, infine, è lecito sperare nel compimento delle promesse di beatitudine del Discorso della Montagna e nel Paradiso. Ossia, non portava verso l’approfondimento teologico o la speculazione filosofica, ma guidava con semplicità pastorale alla vita cristiana. Anche la Summa Teologica di San Tommaso d’Aquino, tanto amata da Filippo, gli era stata costantemente proposta dai frati come dottrina maestra di vita. E dei quattro Vangeli aveva imparato a non studiare peculiarità e differenze, ma ad estrarre il valore comune per l’edificazione interiore, leggendo la grande silloge tomista della Catena Aurea.

In altri termini, sente la sua formazione cristiana come una preparazione a vivere col prossimo e per il prossimo.

Filippo ha compreso che l’infelicità dell’uomo deriva dal male che gli giunge dal mondo, quello stesso mondo dal quale gli giunge il bene originato da Dio; sa che il cristiano deve reagire al male col bene, ma subire sempre il male facendo sempre il bene, ossia continuare a ricevere ferite morali sforzandosi di donare forza e speranza, alla lunga indebolisce, abbatte, scoraggia, perché riduce le risorse interiori minando la volontà.

Ha capito che non si può pretendere di trovare le energie psichiche per fare fronte a questa difficoltà con la sola preghiera, ma si devono creare le condizioni perché la realtà attuale del bello e del buono vissuti come esperienza presente possano nutrire lo spirito. E la prima di queste condizioni è che sia attiva la dimensione del theatron interiore, nel quale rappresentare sé stessi e gli altri con il loro potere evocativo nello spazio di senso forte della purezza dell’infanzia, di quel tempo in cui un bambino burlevole faceva mutare l’umore degli adulti e, unendosi a loro nel sorriso, viveva l’esperienza della gioia.

 

L’autore della nota invita alla lettura degli scritti di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Giuseppe Perrella

BM&L-12 novembre 2022

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[1] Penso in particolare agli effetti positivi della radiazione solare sull’attività endorfinica del cervello (Note e Notizie 17-01-15 Esporsi al sole per abbronzarsi produce effetti stupefacenti sul cervello), sulla regolazione dei ritmi circadiani e sul rilascio di melatonina, con conseguenze virtuose su innumerevoli pattern di fisiologia molecolare e sistemica.

[2] Le varianti Cajata e Cajatta, sviluppate nel tempo, sono sopravvissute fino all’epoca contemporanea. Sembra che il termine “caieta” dei Laconi o Lacedemoni indicasse la concavità e la cavità in generale. Su questa base qualcuno ha ipotizzato che le numerose grotte, presenti in particolare dal Circeo a Gaeta passando per Sperlonga, fossero la ragione del nome. Si obietta, però, che Strabone descrive queste cavità, grotte e spelonche ma non le riferisce mai al termine caieta.

[3] Cfr. Strabone, Geografia (XVII libri storico-geografici dall’originale in greco antico nell’edizione Aldina - Aldo Manuzio & Andrea Torresano - in Venezia, 1516); per il nome del Golfo e della città di Gaeta si può consultare la traduzione ormai classica curata da Anna Maria Biraschi della sola parte riguardante l’Italia: Geografia Libro V e VI. L’Italia. BUR Rizzoli, Milano 1988.

[4] Pier Silvio Rivetta, nella Grammatica rivoluzionaria e ragionata della lingua italiana (De Carlo, Roma 1947), scrive che il nome Gaeta della nutrice di Enea veniva da una voce greca che vuol dire “montagna spaccata” (p. 300, in nota): pura fantasia. Se non si può escludere che caieta fosse usato dai Laconi per indicare le grotte, pur designate in realtà da un termine diverso, non risulta in alcuno studio etimologico dell’idioma dei Laconi quel vocabolo per indicare “scissura”, “fenditura”, “spaccatura” o, addirittura, “montagna spaccata”.

[5] “… mi dipartii da Circe, che sottrasse / me più d’un anno là presso a Gaeta, / prima che sì Enea la nomasse” (XXVI, 91-93). Versi certamente noti a Filippo per lo studio analitico e mnemonico della Divina Commedia praticato in tutte le scuole di Firenze e adottato da precettori, padri spirituali e maestri di lettere, poesia e dottrina.

[6] Raccogliendo l’indicazione di Diodoro dell’origine di Gaeta da Aietes, alcuni hanno proposto una più che fantasiosa illazione: la configurazione geografica del promontorio ai cui piedi sorge la città avrebbe la forma della testa di un’aquila; “Aquila” era il soprannome del dio Elio, che si sarebbe esteso a suo figlio Aietes. Trasferimento di appellativo che, peraltro, non trova riscontri. Variazione sul tema è il significato di “nido d’aquila” nella lingua dei Fenici di una parola che suona come Aeta, secondo Berard, citato da Salvatore Buonomo (Gaeta…, Subiaco 1937). Tentando un sostegno all’origine da Aietes/aeta, ma anche in questo caso senza alcun reale nesso glottologico o storico, alcuni citano il sopravvivere nei dialetti campani e del basso Lazio della versione “Aitano” per il nome proprio “Gaetano”; ma è una forma che deriva semplicemente da una modificazione dialettale posteriore del nome “Gaetano”, seguendo una traslitterazione di sostrato popolare.

[7] La moderna Ariccia sita tra Albano e Genzano.

[8] Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, libro VI, §32 (vergato dopo il 7 a.C. in XX libri) estratto da copia anastatica di biblioteca dell’originale (dieci libri pervenuti interi più gran parte dell’undicesimo e alcuni frammenti) edito da Robert Estienne, Parigi 1547.

[9] Il motivo, secondo l’opinione prevalente fra gli storici, è da attribuire al fatto che Gaeta non era ancora una vera città (si veda, ad es.: Erasmo Gesualdo, Osservazioni critiche sopra la “Storia della Via Appia” di Fr. Pratilli e di altri autori nell’opera citati, pp. 57 e segg., Simoniana, Napoli 1756).

[10] Cicerone, De imperio Cn. Pompei (Orazione a favore della Lex Manilia (legge di Gaio Manilio) sul comando di Gneo Pompeo, nell’edizione commentata da Ettore Guerriero), 12, 23. Loffredo, Napoli 1973.

[11] Nominato da Cesare nel 46 a.C., l’evento fu ricordato da una moneta dedicatoria col suo nome nell’esergo.

[12] Rimangono dei ruderi, ma si ritiene che gran parte dei resti giaccia sotto l’attuale Santuario della Santissima Trinità alla Montagna Spaccata.

[13] Il Mausoleo di Munazio Planco è ben conservato e ospita un interessante allestimento museale aperto ai visitatori.

[14] Lucio Munazio Planco, insospettito dai silenzi e dal permanere in Egitto dell’amico Marco Antonio, si recò presso le Vestali che custodivano il suo nuovo testamento e così scoprì che Antonio aveva lasciato terre dei domini romani ai figli di Cleopatra e aveva disposto che le sue spoglie fossero consegnate alla regina egiziana per la sepoltura in Alessandria d’Egitto, come se fosse un suo generale. Planco informò Ottaviano, che lesse il testamento in Senato: i senatori compresero che Marco Antonio era stato irretito dalla sovrana nemica e autorizzarono la spedizione (v. cit. nota seguente).

[15] Cfr. Gaio Svetonio Tranquillo, De vita Caesarum (VIII libri), libro II, AugustusVita divi Augusti. Eutropio. L’approvazione fu seguita dalla delibera che il titolo sarebbe stato attribuito a tutti gli imperatori.

[16] Per questi dati e altre affermazioni in questo scritto sono stati consultati documenti, riproduzioni anastatiche di documenti originali e opere biografiche classiche (P. G. Bacci, Vita di San Filippo Neri…, Roma 1622; Il primo processo per S. F. N. nel Cod. Vaticano lat. 3798; Giacomo Ricci, Vita di San Filippo Neri, Roma 1703; D. M. Nanni, Lezione… sopra l’emendare alcuni luoghi della vita di S. F. N., Firenze 1760; G. Volpi, Apologia per la vita di S. F. N. scritta da A. Gallorio e P. J. Bacci…, Padova 1740; Augusto Conti, La vita di San Filippo Neri, Uffizio della Rassegna Nazionale in Firenze, 1884; Alfonso Capecelatro, La vita di San Filippo Neri, libri tre, Roma 1889; M. Borrelli, Una copia napoletana sconosciuta del terzo processo di beatificazione di S. F. N., Napoli 1971), messe a confronto con biografie più recenti [Vittorio Frajese (v. dopo); Francesco Danieli, San Filippo Neri, San Paolo, Cinisello Balsamo 2009; Roberto Brunelli, San Filippo Neri – Il “Santo della gioia”. Editrice Velar (con Elledici, Torino), Bergamo 2014)].

[17] Secondo alcuni in quello stesso anno Leonardo si trasferisce in Francia alla corte di Francesco I.

[18] Cfr. Vittorio Frajese, Filippo Neri in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 47, Treccani, Roma 1997.

[19] Alessandra Lensi, sposata in seconde nozze da Francesco, non farà mancare il suo affetto ai figli del marito.

[20] Queste citazioni, e parte delle affermazioni seguenti sul carattere, sono tratte dalla deposizione della sorella Elisabetta al Primo processo canonico per San Filippo Neri nel Codice Vaticano Latino, vol. IV, e riportate da Roberto Brunelli in San Filippo Neri – Il “Santo della gioia”, p. 6, Editrice Velar (con Elledici, Torino), Bergamo 2014.

[21] Roberto Brunelli, op. cit., idem.

[22] Vangelo di Giovanni 15, 12.

[23] È il primo verso del celebre Trionfo di Bacco e Arianna dei Canti carnascialeschi, una ballata di ottonari che lo stesso Lorenzo il Magnifico intitolò Canzona di Bacco.

[24] Di quella cerchia avevano poi fatto parte Giovanni da Verrazzano, Amerigo Vespucci e Lorenzo di Pierfrancesco, detto “Lorenzo il Popolano” per distinguerlo dal Magnifico. Fu Lorenzo il Popolano, ritratto in quegli anni da Sandro Botticelli, a inviare Amerigo Vespucci a Siviglia dove conobbe Cristoforo Colombo. Amerigo Vespucci denominò il continente scoperto da Colombo “Nuovo Mondo”; nel 1507 il tedesco Martin Waldseemüller, il più autorevole cartografo del tempo, lo denomina “America” da Americus Vespucius, in latino, lingua internazionale della cartografia.

[25] Franco Cardini, Breve storia di Firenze, p. 104, Pacini Editore, Pisa 2000.

[26] Si segue la cronologia riferita dalla sorella Elisabetta nella sua testimonianza al processo di beatificazione: secondo lei rimase per due anni a far capo a San Germano. Anche G. Bacci conferma in due anni la durata di questo periodo (in Dizionario Biografico Treccani); un tempo coerente con la tradizione dell’edificazione in Gaeta della piccola “Cappella di S. Filippo Neri”. Gallonio afferma che vi rimase solo pochi giorni, ma probabilmente aveva saputo della partenza di Filippo da San Germano pochi giorni dopo il suo arrivo, e magari si trattava della partenza per Gaeta.

[27] Solo dopo molti anni di predicazione errante e la fondazione della Congregazione, fu costretto dal suo padre spirituale Persiano Rosa all’ordinazione sacerdotale nel 1551, a 36 anni. Nella biografia televisiva interpretata da Gigi Proietti, che si discosta quasi interamente dalla realtà storica, con personaggi inventati come Pinotto e Mezzapagnotta, il diciannovenne Filippo Neri è rappresentato al suo arrivo a Roma come un maturo sacerdote.

[28] L’edificazione di questa elegante cattedrale in stile gotico fu possibile grazie ai finanziamenti di Carlo II d’Angiò e di suo figlio Ludovico, un francescano divenuto Vescovo di Tolosa, che visitò il cantiere dei lavori nel 1295.

[29] Gregorio di Forio (a cura di), Vita del padre San Francesco di Assisi, p. 219, Gaetano Rusconi, Napoli 1842. Un secolo e mezzo prima, in un altro racconto dello stesso miracolo, il lavoratore sarebbe stato schiacciato da un masso invece che da una trave (cfr. Cornelio Ceraso, Breve descrittione delle cose più notabili di Gaeta, p. 19, Giacomo Raillard, Napoli 1690).

[30] San Benedetto da Norcia fu fondatore dell’Abbazia di Montecassino, dove rimase fino alla morte, ed esercitò un’influenza culturale sulle comunità urbane più prossime, quale quella di San Germano (Cassino), che sopravviverà a mille anni di distanza.

[31] Per curioso che possa apparire alla luce di questa considerazione, San Benedetto da Norcia è Patrono d’Europa, proclamato il 24 ottobre 1964 da Papa Paolo VI con il breve Pacis nuntius.

[32] Un importante riferimento per la piccola ricerca bibliografica sulle rocce scisse è stato il volume di Donato Vaglio (Donato Vaglio, La Montagna Spaccata e il suo Santuario tra storia e leggenda. Caramanica 2013; dieci edizioni dal 1951 al 2005 e poi ristampe recenti) che propone un’equilibrata rassegna critica delle fonti storiche, non limitandosi a riportare le tesi dei principali autori ma risalendo ai documenti da cui asserti e convinzioni hanno tratto origine.

[33] Cfr. Pietro Rossetto, Breve descrizione delle cose notabili della città di Gaeta, p. 42, Parrino e Mutii, Napoli 1689. Pietro Rossetto, circa la notizia del restauro del 1514 scrive: “Come appare in un marmo sopra la porta”, ossia una lapide poi andata perduta.

[34] Dante Alighieri, La Divina Commedia, Paradiso: XIII, 79-81.

[35] Vangelo di Luca 9, 58.

[36] Lo racconta lo stesso Benvenuto Cellini nella sua autobiografia.

[37] Questa considerazione è anche di Erasmo Gesualdo in Osservazioni critiche sopra la storia della Via Appia, p. 52, Simoniana, Napoli 1756. Interessante leggere questo passo del Gesualdo, riportato anche in Donato Vaglio, La Montagna Spaccata, p. 87, Caramanica 2013: “…avendo osservato di traversare e fendere quasi per mezzo la villetta di Planco, giudico di certo che la scissura accaduta fosse dopo la fondazione di essa, parendomi improbabile aver voluto eleggere un luogo in mezzo del quale fosse così orrendo precipizio”. Si precisa che la villa includeva giardini, fontane e piscine, e con il termine villetta si intende specificamente l’edificio abitativo all’interno dell’area.

[38] Dionigi Exiguus o Dionigi il Piccolo introdusse il calendario cristiano ora adottato in tutto il mondo, fissando l’anno 1 alla nascita di Gesù, corrispondente al 753 dell’era romana (753° dalla fondazione di Roma), con inizio la settimana seguente il 25 dicembre. (Dionigi non considera un anno 0, perché lo zero non esisteva ai suoi tempi e fu introdotto solo nel 1202 da Fibonacci). L’errore di Dionigi fu individuato in base alla certezza della morte di Erode il Grande, avvenuta nel 4 a.C. (Emil Schürer), per cui l’incarnazione sarebbe avvenuta tra l’8 e il 4 a.C.; gli storici che eleggono il 4 a.C., collocano la morte di Gesù nel 29 d.C., anno in cui è documentato un catastrofico terremoto.

[39] Cfr. Pietro Rossetto, Breve descrizione delle cose notabili della città di Gaeta, p. 44, Parrino e Mutii, Napoli 1689.

[40] Johannes (o Joannes) Cajetani, Vita et Passio S. Erasmi. Caballina, Roma 1638. È la fonte più antica e attendibile di cui si dispone su questo episodio. Cajetani menziona la lapide col distico posto sotto l’impronta della mano, che si vede ancora oggi, ma che forse non c’era al tempo di Filippo Neri: IMPROBA MENS VERU RENUIT QUOD FAMA FATETUR / CREDERE AT HOC DIGITIS SAXA LIQUATA PROBANT (UNA MENTE IMPROBA RIFIUTÒ IL VERO CHE CREDIAMO PER FAMA, MA LO PROVA QUESTA ROCCIA FUSA SOTTO LE DITA).

[41] Pietro Rossetto, op. cit., p. 44.

[42] Pietro Rossetto, op. cit., p. 61. Dei contemporanei citati da Vaglio (op. cit.), Ferraro (1903) afferma che si trattava di un marinaio turco; Schroeder (1904) si limita a citare Rossetto.

 

[43] Il concetto cristiano di “mistero” ha ben altro peso, senso e calibratura nella dottrina. I fatti inspiegabili di questo tipo sono attribuiti da chi esclude possibilità metafisiche alla mano dell’uomo; nel secolo successivo, per casi diversi da questo diventeranno popolari le congetture dette “ipotesi dell’alchimista”, che postulavano l’individuazione di formule segrete per liquefare, sciogliere o ammorbidire le pietre dure, ma non vi si dava più credito di quanto se ne desse alla possibilità di trovare la formula per generare l’oro da altri materiali.

[44] Sull’efficacia psicoadattativa degli esercizi di umorismo si veda Le basi e l’uso degli effetti benefici di umorismo e risate nella sezione “In Corso” del sito. Si tenga anche conto che un regime di vita ricco e intenso, se partecipato e non subito, se vissuto col piacere di mettersi alla prova e la certezza di riuscire, non genera frustrazione, accresce la stabilità e l’energia a disposizione del soggetto, ossia quelle risorse che in psicologia si identificano con la forza dell’Io.

[45] Sul sito degli “Uffizi” si legge una versione diversa, che probabilmente fu inventata cercando di interpretare la scena del dipinto da parte di qualcuno che conosceva poco le vere burle dell’Arlotto, e aveva presenti solo le beffe create per il teatro. Infatti, vedendo nel dipinto dei sacerdoti giovani, l’ha descritta in questi termini: “Essendo l’Arlotto stato chiamato lui, più anziano, a prendere il vino invece dei giovani, per vendicarsi lascia la botte aperta e fa fuoriuscire il vino”. Ma così non sarebbe una burla a fine correttivo, sarebbe solo un gratuito danno provocato per ripicca.

[46] Dalle quali origina anche la locuzione “scherzi da prete”.

[47] Cfr. Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte seconda (II vol.), p. 44, Tipografia Coppini, Firenze 1996.

[48] Giulio Bucciolini, Le burle del Piovano Arlotto: tre atti da ridere (1910).

[49] Ad esempio, quella che si trova in Wikipedia.

[50] Nei tre anni di predicazione solo in brevi momenti Gesù fa discorsi escatologici, e la cacciata dei mercanti dal Tempio rimane un episodio unico; per il resto, ha insegnato ad amare Dio e il prossimo con la docile mansuetudine dell’esempio, delle parabole e dei miracoli, pregando il Padre anche per i suoi nemici, anche per quelli che lo crocifissero. In dottrina è prevista la “correzione fraterna” che, spiega Gesù, va fatta a quattr’occhi e non denunciando sulla pubblica piazza i presunti peccati di un fratello di fede.

[51] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte seconda (II vol.), p. 43, Tipografia Coppini, Firenze 1996.

[52] Per altri dettagli sul Piovano Arlotto si veda in Specchio della psiche e della civiltà – ottava parte, accedendo dalla copertina del nostro sito, o anche in Note e Notizie 29-05-21 Specchio della psiche e della civiltà – ottava parte.

[53] Il magistrato del Bargello disponeva l’esecuzione della pena presso la Loggia del Mercato Nuovo di Firenze, detta “del Porcellino” dal cinghiale di bronzo, opera del Tacca, che l’adorna. I condannati venivano esposti al pubblico ludibrio dalle guardie del Bargello facendo battere loro il sedere denudato su una pietra nel mezzo della Loggia che rappresenta la ruota del Carroccio della Repubblica Fiorentina e viene per questo detta “pietra dello scandalo”.

[54] Non si ha documentazione che attesti la realizzazione del proposito, né la si può identificare sicuramente con la cappellina quadrangolare che fu effettivamente costruita e oggi è detta “di San Filippo Neri”, dopo essere stata intitolata a Sant’Anna e a San Nicola di Bari (Rossetto, op. cit., p. 38).

[55] Nella storia fu la più importante vittoria in difesa della civiltà occidentale prima della Battaglia di Lepanto del 1571.

[56] Il Codex diplomaticus cajetanus fu rinvenuto nel Settecento da Erasmo Gattola, storico ed archivista gaetano del monastero di Montecassino, che recuperò le chartae in latino medievale relative a un periodo che va dall’830 al 1399, ossia un arco temporale ben più lungo di quello del Ducato di Gaeta, che si costituì nell’840 e cessò di esistere nel 1140.

[57] Alcune trattazioni poco aggiornate riportano ancora le illazioni prive di fondamento fatte in passato sulle origini non gaetane di Giovanni Caboto: si tratta di un’aneddotica che ha preceduto la ricerca storica.

[58] La caravella romanticamente battezzata Mathew, con la quale Giovanni Caboto scoprì il Canada, è stata fatta rivivere a Bristol, dove è stata perfettamente ricostruita in tutti i dettagli di un veliero in grado di navigare come l’originale. Normalmente ancorata nel porto di Bristol dal 1996, dal 2008 è visitabile in occasione del Cardiff Harbour Festival. In Bonavista, Newfoundland, dove si ritiene sia approdato Caboto, tra il 1997 e il 1998 è stata realizzata un’altra replica della Mathew.

[59] Il comandante non usa il nome “Canada” che, secondo la tradizione, sarebbe stato introdotto ufficialmente tre anni dopo, nel 1535. Sarebbe derivato dal termine Kanata, che vuol dire “comunità” o “villaggio”, usato da alcuni Irochesi per indicare il Québec o il suo principale villaggio (Quebec City) durante le esplorazioni lungo il fiume San Lorenzo.

[60] Nella biografia televisiva attribuita, in una simile circostanza, a San Filippo Neri che ugualmente rifiutò la nomina.

[61] Muore avvelenato all’età di 31 anni, per ragioni oscure, all’arrivo dei Francesi. Nel 2018, sono state condotte analisi medico-legali sulle spoglie di Pico della Mirandola da un gruppo di ricerca internazionale con membri spagnoli, britannici e tedeschi, coordinati dal Dipartimento di Biologia dell’Università di Pisa e con il contributo del Reparto Investigazioni Scientifiche dell’Arma dei Carabinieri. L’esito ha accertato la morte per avvelenamento da arsenico (Gallello G. et al., Poisoning in histories in the Italian Renaissance: The case of Pico della Mirandola and Agnolo Poliziano. Journal of Forensic and Legal Medicine 58, 83-89, 2018). Anche nelle ossa di Agnolo Poliziano è stato trovato arsenico in indagini condotte per conto dell’Università di Ravenna.

[62] Si erano create tre fazioni che si opponevano ai Piagnoni del potere dichiaratosi democratico ma presto rivelatosi tirannico, giustizialista e omicida: gli Arrabbiati, che sostenevano l’oligarchia, i Compagnacci, giovani che si opponevano alla proibizione del divertimento, e i Bigi, cosiddetti per le loro posizioni neutre dovute al timore di dichiarare la nostalgia per la Signoria medicea, per questo detti anche Palleschi, dalle sfere dello stemma dei Medici.

[63] Si ritiene che il ruolo politico assunto dal Savonarola e la delazione, la testimonianza o, quantomeno, la mancata difesa presso il Papa da parte dei francescani, possano aver contribuito alla decisione.

[64] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte sesta (VI vol.), p. 84, Tipografia Coppini, Firenze 1999.

[65] Questa considerazione si basa su quanto emerso dai documenti e sulla lettura che oggi ne danno gli storici, ma sono consapevole che l’emergere di altri fatti potrebbe mutare radicalmente il quadro, e magari scagionare Savonarola.

[66] Foresto Niccolai, Bricciche fiorentine – parte sesta (VI vol.), p. 84. Si è sostenuto che questi eventi abbiano contribuito se non determinato la lontananza del popolo dalla repubblica savonaroliana quando Filippo era a Firenze.

[67] La bolla Transiturus de hoc mundo, che fa un cauto riferimento alla dichiarazione della suora agostiniana Giuliana di Cornillon di aver ricevuto dal Signore la richiesta di istituire una festa della S. Eucarestia, fissa la solennità del Corpus Domini. La bolla riporta la data del concistoro, ma fu promulgata solo l’8 settembre; il 2 di ottobre, a Deruta, Urbano IV morì.

[68] Differente la concezione estetica: il francescano di Bagnoregio, come Francesco, vedeva nel bello della natura il Bellissimo; il domenicano di Aquino considera la bellezza un attributo della bontà divina. Entrambi ritengono che l’esperienza della bellezza possa essere concessa in dono, in aggiunta, a coloro che abbiano cercato in primo luogo il regno di Dio (cfr. Matteo 6, 24-34.).

[69] San Tommaso d’Aquino era chiamato Doctor Angelicus e San Bonaventura fu denominato Doctor Seraphicus.

[70] Immanuel Kant, nella Critica della ragion pura, senza citarne l’origine, ne fa il canone della prima critica.